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Frasi Pirandello
Luigi Pirandello è uno degli autori più studiati durante gli anni scolastici e spesso viene scelto come poeta per il tema alla maturità. Questo scrittore ebbe un successo internazionale e gli aforismi di Pirandello sono ancora molto ricercati al giorno d’oggi. Ecco a voi le frasi di Pirandello e tante immagini con con le sue parole da condividere.
Aforismi Pirandello
Non solo scrittore di romanzi, Pirandello fu anche poeta e drammaturgo, tanto che all’interno degli frasi celebri di Pirandello si possono anche trovare le frasi sul teatro, così come tante tematiche quali la società dei primi anni del 1900, l’uomo, l’amore e l’amicizia. Ecco a voi le frasi di Luigi Pirandello come quelle tratte da Uno Nessuno e Centomila.
Sapete che cosa significa amare l’umanità? Significa soltanto questo: essere contenti di noi stessi. Quando uno è contento di sé stesso, ama l’umanità.
La vita non si spiega; si vive.
Amicizia vuol dire confidenza.
Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere «nessuno.
E prese a raccontare, con atteggiamento, di grave costernazione, i fatti avvenuti di recente in Sicilia, a Serradifalco, a Catenanuova, ad Alcamo, a Casale Floresta, i quali provavano come in tutta l’isola covasse un gran fuoco, che presto sarebbe divampato; e a rappresentar la Sicilia come una catasta immane di legna, d’alberi morti per siccità, e da anni e anni abbattuti senza misericordia dall’accetta, poiché la pioggia dei benefizii s’era riversata tutta su l’Italia settentrionale, e mai una goccia ne era caduta tra le arse terre dell’isola.
Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere.
Come ci sono i figli illegittimi, ci sono anche i pensieri bastardi!
Sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra della campagna di Girgenti, dove nacqui.
Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni – quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore – allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così.
Si domanda a questo punto se vogliono esser considerati come zoologi o come critici letterarii quei tali signori che, giudicando un romanzo o una novella o una commedia, condannano questo o quel personaggio, questa o quella rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell’arte come sarebbe giusto, ma in nome d’una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell’infinita varietà d’uomini capaci di commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer verosimili, perché sono vere.
Per chi cade nella colpa, signore, il responsabile di tutte le colpe che seguono, non è sempre chi, primo, determinò la caduta?
In cuor di donna quanto dura amore? (Ore). Ed ella non mi amò quant’io l’amai? (Mai). Or chi sei tu sì ti lagni meco? (Eco).
Sorte miserabile quella dell’eroe che non muore, dell’eroe che sopravvive a se stesso.
Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare.Non si può mica credere a quello che dicono i pazzi! Eppure, si stanno ad ascoltare così, con gli occhi sbarrati dallo spavento. Perché? Perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni! Eh! Che volete?
Ed ecco, ora, dopo essermi aggirato per due anni, come un’ombra, in quella illusione di vita oltre la morte, mi vedevo costretto, forzato, trascinato peri capelli a eseguire su me la loro condanna. Mi avevano ucciso davvero!
Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
L’educazione è la nemica della saggezza, perché l’educazione rende necessarie tante cose di cui, per essere saggi, si dovrebbe fare a meno.
Due sole vere infelicità aveva la vita, per coloro sui quali la natura esercita la sua feroce ingiustizia: la bruttezza e la vecchiaia, soggette al disprezzo e allo scherno della bellezza e della gioventù.
Ciò che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa.
Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco “Kaos”.
Non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto gli altri dentro di te?
La causa vera di tutti i nostri mali, di questa tristezza nostra, sai qual è? La democrazia, mio caro, la democrazia, cioè il governo della maggioranza. Perché, quando il potere è in mano d’uno solo, quest’uno sa d’esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà.
Chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più… Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità.
Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza.
Avete voi riso della favola della volpe e dell’uva? Io no, mai. Perché nessuna saggezza m’è apparsa più saggia di questa, che insegna a guarir d’ogni voglia disprezzandola.
La vita è un flusso che noi cerchiamo di arrestare in forme stabili e determinate … dove la realtà ti disperde e disintegra oppure ti vincola e ti incatena fino a soffocarti.
Per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente.
Vedi questi pazzi? Senza badare al fantasma che portano con sé, in sé stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! E credono che sia una cosa diversa.
Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
La vita è tutta una bestialità, e allora dica un po’ lei che cosa significa il non averne commessa nessuna: significa per lo meno non aver vissuto.
Quando tuo padre t’ha messo al mondo, caro, il fatto è fatto. Non te ne liberi più finché non finisci di morire.
Il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte.
Quando un personaggio è nato, acquista subito una tale indipendenza anche dal suo stesso autore, che può esser da tutti immaginato in tant’altre situazioni in cui l’autore non pensò di metterlo, e acquistare anche, a volte, un significato che l’autore non si sognò mai di dargli!
Il piacere che un oggetto ci procura non si trova nell’oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce cingendolo e quasi irraggiandolo d’immagini care. Nell’oggetto insomma amiamo quel che vi mettiamo di noi.
È molto più facile essere un eroe che un galantuomo. Eroi si può essere una volta tanto; galantuomini, si dev’esser sempre.
Un’ora breve di dolore c’impressiona lungamente; un giorno sereno passa e non lascia traccia.
In che consiste la vera ricchezza, la vera felicità? Nell’aver pochi bisogni.
La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma.
Le donne, come i sogni, non sono mai come tu le vorresti.
Copernico ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre.
L’umorismo, per lo specialissimo contrasto essenziale in esso, inevitabilmente scompone, disordina, discorda.
Perché civile, esser civile, vuol dire proprio questo: dentro, neri come corvi; fuori, bianchi come colombi; in corpo fiele; in bocca miele.
È molto più facile fare il male che il bene, non solo perché il male si può fare a tutti e il bene solo a quelli che ne hanno bisogno; ma anche, anzi sopra tutto, perché questo bisogno d’aver fatto il bene rende spesso così acerbi e irti gli animi di coloro che si vorrebbero beneficare, che il beneficio diventa difficilissimo.
I filosofi hanno il torto di non pensare alle bestie e davanti agli occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema filosofico.
Tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, non può produrre ormai altro che stupidità. Stupidità affannose e grottesche! Che uomini, che intrecci, che passioni, che vita, in un tempo come questo? La follia, il delitto, o la stupidità. Vita da cinematografo!
Mangia il Governo, mangia la Provincia; mangia il Comune e il capo e il sottocapo e il direttore e l’ingegnere e il sorvegliante… Che può avanzare per chi sta sotto terra e sotto di tutti e deve portar tutti sulle spalle e resta schiacciato?
Riponi in uno stipetto un desiderio: aprilo: vi troverai un disinganno.
Tutti riconosciamo volentieri la nostra infelicità; nessuno, la propria malvagità.
Vivo alla morte, ma morto alla vita.
Ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’aver ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!
Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali.
Non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt’al più sorridere.
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!
Nulla è più complicato della sincerità.
L’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava.
E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ah, no! Volti la pagina, signora! Se lei volta la pagina, vi legge che non c’è più pazzo al mondo di chi crede d’aver ragione!
Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica di tutte le vostre costruzioni.
Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprendende in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte.
Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.
L’umorismo non ha affatto bisogno d’un fondo etico, può averlo o non averlo: questo dipende dalla personalità, dall’indole dello scrittore.
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. “Avverto” che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un “avvertimento del contrario”.
Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa.
Il lanternino che proietta tutto intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi purtroppo dobbiamo credere vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine da un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?
La verità? è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola – Ah! – E la seconda moglie del signor Ponza – Oh! E come? – Sì; e per me nessuna! nessuna! – Ah, no, per sé, lei, signora: sarà l’una o l’altra! – Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede. Ed ecco, o signori, come parla la verità.
Una cosa è triste, cari miei: aver capito il gioco! Dico il gioco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà.
Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pesante chi vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi!
Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s’inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.
Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
Nell’improvviso buio, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicaio, otturata per ispasso da un bambino crudele.
L’umorismo, per lo specialissimo contrasto essenziale in esso, inevitabilmente scompone, disordina, discorda.
Ogni cosa finché dura porta con sé la pena della sua forma, la pena d’esser così e di non poter essere più altrimenti.
Hai mai pensato di andare via e non tornare mai più? Scappare e far perdere ogni tua traccia, per andare in un posto lontano e ricominciare a vivere, vivere una vita nuova, solo tua, vivere davvero. Ci hai mai pensato?
Eppure la scienza, pensavo; ha l’illusione di render anche più facile e più comoda L’esistenza! Ma, ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando, io: «E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?
Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l’anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l’aria tra essi e me s’era d’un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa dell’anima; serena, ineffabile ebbrezza!
E mentr’io attenderò al molino, il fattore mi ruberà i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E di qua il mugnajo e di là il fattore faranno l’altalena, e io nel mezzo a godere.
Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natìa circondata dal mare immenso e geloso.
Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere, metti ti le mie scarpe, percorri il cammino, che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto e caddi la dove ho caduto io e rialzati come ho fatto io.
A quanti uomini, presi nel gorgo d’una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c’é sopra il soffitto il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Anche se l’esserci delle stelle non ispirasse a loro un conforto religioso, contemplandole, s’inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazi, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento.
«Beate le marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà; nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.
E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia. Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi: – Dorme, signor Meis? E io ero tentato di rispondergli: – Sì, grazie, dormo, signor Anselmo. Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare. E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi.
Gli unici modi per fuggire dalla vita sono la pazzia e l’ironia.
Le anime hanno un loro particolar modo d’intendersi, d’entrare in intimità, fino a darsi del tu, mentre le nostre persone sono tuttavia impacciate nel commercio delle parole comuni, nella schiavitù delle esigenze sociali.
Fare i cinici è pure un modo di dare leggerezza alla vita quando comincia a pesare.
Tradire è orribile.
Quando tu riesci a non aver più un ideale, perché osservando la vita sembra un enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai; quando tu non hai più un sentimento, perché sei riuscito a non stimare, a non curare più gli uomini e le cose, e ti manca perciò l’abitudine, che non trovi, e l’occupazione, che sdegni quando tu, in una parola, vivrai senza la vita, penserai senza un pensiero, sentirai senza cuore allora tu non saprai che fare: sarai un viandante senza casa, un uccello senza nido. Io sono così.
Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe,
laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori..E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini,
eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: Buon Natale.
La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri.
Molto ha da fare il vento con le nuvole frivolo annento senza disciplina.Piace al sole con pompa e con ossequio d’esser accolto in cielo ogni mattina: e fin dall’alba ecco il vento in servizio a preparargli una regal cortina, a cui con estro immaginoso ingègnasi a dar novella foggia; e ne combina spesso di belle assai: rosse, con aurea frangia o d’argento con purpurea trina. Sul vespro poi, nuovo apparato! Gli uomini soglion tra loro chiamar pazzo il vento: forse perché si pensa che non debbono costar fatica alcuna, alcuno stento, que’ suoi servizi; ma, se gli si sbandano le nubi, e il Sol se ne va via scontento? Se ogni villan vuoI acqua sul proprio campicello, e lui su pel firmamento, gira e rigira, non trova una nuvola, quando poche sarebbero anche cento?
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Maschere di Pirandello frasi
Per chi non conoscesse bene questo poeta e drammaturgo, tra le frasi di Pirandello le maschere hanno un ruolo centrale e permettono di comprendere alla perfezione il suo pensiero: l’uomo non ha solo una faccia ma indossa quotidianamente maschere differenti in base ai contesti in cui si trova. Lo scrittore ha caro il tema della maschera e intitola proprio una sua raccolta “Maschere Nude” che si focalizza sulla falsità degli individui. Vediamo le maschere di Pirandello in frasi, ottime come spunto di riflessione. Un esempio sono le famose parole di Pirandello in frasi come:Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
Ciò che conosciamo di noi è solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa.
Il guaio è che come ti vedo io, non ti vedono gli altri! E allora, caro mio, che diventi tu? Dico per me che, qua di fronte a te, mi vedo e mi tocco – tu, per come ti vedono gli altri – che diventi? – Un fantasma, caro, un fantasma!
C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando stai solo, resti nessuno.
Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.
Che mondaccio, signor Gubbio, che mondaccio è questo! che schifo! Ma pajono tutti… che so! Ma perché si dev’essere così? Mascherati! Mascherati! Mascherati! Me lo dica lei! Perché, appena insieme, l’uno di fronte all’altro, diventiamo tutti tanti pagliacci? Scusi, no, anch’io, anch’io; mi ci metto anch’io; tutti! Mascherati! Questo un’aria così; quello un’aria cosà… E dentro siamo diversi! Abbiamo il cuore, dentro, come… come un bambino rincantucciato, offeso, che piange e si vergogna!.
La civiltà vuole che si auguri il buon giorno a uno che volentieri si manderebbe al diavolo; ed essere bene educati vuol dire appunto esser commedianti.
Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa.
Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.
Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità cosí inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero o m’aggredirebbero.
Sconsolante è quindi il quadro di questa società, fondata sul nulla della finzione della convinzione del credere vero quello che si sa non essere tale.
Tutto ciò che è profondo ama la maschera.
È sicura anche lei di toccarmi come mi vede? Non può dubitare di lei. – Ma per carità, non dica a suo marito, né a mia sorella, né a mia nipote, né alla signora qua, come mi vede, perché tutt’e quattro altrimenti le diranno che lei s’inganna. Mentre lei non s’inganna affatto! Perché io sono realmente come mi vede lei! – Ma ciò non toglie che io sia anche realmente come mi vede suo marito, mia sorella, mia nipote e la signora qua, che anche loro non si ingannano affatto!
La civiltà vuole che si auguri il buon giorno a uno che volentieri si manderebbe al diavolo; ed essere bene educati vuol dire appunto esser commedianti.
Questa cosa orribile, che fa veramente impazzire: che se siete accanto a un altro, e gli guardate gli occhi potete figurarvi come un mendico davanti ad una porta in cui non potrà mai entrare: chi vi entra, non sarete mai voi, col vostro mondo dentro, come lo vedete e lo toccate; ma uno ignoto a voi, come quell’altro nel suo mondo impenetrabile vi vede e vi tocca.
Vi vedo così affannati a cercar di sapere chi sono gli altri e le cose come sono, quasi che gli altri e le cose per se stessi fossero così o così.
Non ci si bada, ma tutti disperdiamo ogni giorno o soffochiamo in noi il rigoglio di chi sa quanti germi di vita, possibilità che sono in noi, obbligati a continue rinunzie, a menzogne, a ipocrisie.
Servire obbedire non potere esser niente. Un abito di servizio, sciupato, che ogni sera si appende al muro, a un chiodo. Dio, che cosa spaventosa non sentirsi più pensata da nessuno! Nella strada vidi la mia vita, non so, col senso che non esistesse più, come sognata con le cose che mi stavano attorno, le rare persone che passavano per quel giardino di mezzogiorno, gli alberi quei sedili e non volli, non volli esser più niente.
Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni.
I fatti! I fatti! Caro signore, i fatti sono come si assumono; e allora, nello spirito, non sono più fatti: ma vita che appare, così o in altro modo. I fatti sono il passato, quando l’animo cede, ‑ lo diceva lei stesso ‑ e la vita li abbandona. Perciò non credo ai fatti.
Bada che posso dir tutto, io, adesso ‑ quello che nessuno ha mai osato dire ‑ tocco l’ultimo l’ultimo fondo, io ‑ la verità dei pazzi, grido ‑ le cose brute di chi non pensa di rialzarsi più ‑ di coprire la sua più intima vergogna!
Un romanzo, cara, o si scrive o si vive.
Perché non puoi capirla, tu, questa cosa orribile, d’una vita che ti ritorna, così… come… come un ricordo che invece d’esserti dentro, ti viene… ti viene, inatteso, da fuori… Così cangiato, che stenti a riconoscerlo. Non sai più trovargli posto in te, perché anche tu sei cangiato, e non riesci più a risentirti vivo in esso, pur vedendo che sì, era vita tua, come tu forse eri ‑ ma non per te! ‑ come parlavi, come guardavi, come ti movevi nel ricordo di quell’altro, senza essere tu.
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Pirandello: Uno, nessuno e centomila frasi
Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo scritto dall’autore e si concentra unicamente sul protagonista: Vitangelo Moscarda. Pirandello lo descrive come un antieroe decisamente debole e immaturo. Le frasi di Pirandello in Uno nessuno e centomila insegnano a vivere la vita giorno per giorno senza preoccuparsi di ciò che gli altri pensano. Di seguito di Pirandello, le frasi celebri tratte dall’opera.
Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.Mia moglie sorrise e disse: credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente:ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.
Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza più di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.
Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.
Quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.
Ci vorrebbe un pò più d’intesa tra l’uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti… Ma l’uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostruzione. Perché ha in sè quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a suo modo la materia che gli offre la natura ignara, forse e, almeno quando vuole, paziente.
Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?
Quando voi non volete assolutamente una cosa, che fa vostra moglie?
Forse s’intendono, con quel canto e con questo scricchiolio, l’uccello imprigionato e il noce ridotto seggiola.
Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sì, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perchè non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensì per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua, almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia. Capisco,l capisco, Rilascio di nervi. Accorato bisogno d’abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.
Il dolore ti salva, figliuolo.
Ah, perdersi là, distendersi e abbandonarsi, così tra l’erba, al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana azzurrità facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!
Beati loro che hanno le ali e possono scappare!
La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.
Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.
Le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
Ciascuno di noi si crede ‘uno’ ma non è vero: è ‘tanti’, signore, ‘tanti’, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: ‘uno’ con questo, ‘uno’ con quello diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’esser sempre ‘uno per tutti’, e sempre ‘quest’uno’ che ci crediamo, in ogni nostro atto. Non è vero!
La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Di quei tempi ero fatto per sprofondare, ad ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
Ma il guaio è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, ne dirmele; e io, nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.
Perché guardi così? E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre così, ciascuno con gli occhi pieni dell’orrore della propria solitudine senza scampo.
La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi. Cosi volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter più levarmi di torno e ch’ero io stesso: estraneo inseparabile da me.
Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioè vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io non essendo io propriamente nessuno per me: tanti Moscarda quanti essi erano.
M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
Notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri.
Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione.
Non aveva mica un nome per sé il mio spirito, né uno stato civile: aveva tutto un suo mondo dentro; e io non bollavo ogni volta di quel mio nome, a cui non pensavo affatto, tutte le cose che mi vedevo dentro e intorno. Ebbene, ma per gli altri io non ero quel mondo che portavo dentro di me senza nome, tutto intero, indiviso e pur vario. Ero invece, fuori, nel loro mondo, uno – staccato – che si chiamava Moscarda, un piccolo e determinato aspetto di realtà non mia, incluso fuori di me nella realtà degli altri e chiamato Moscarda.
L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede più requie.
Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? Gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso?
Quelli che vogliono sopraffare! Il signor Furbo per esempio! S’illudono perché in verità poi, caro mio, non riescono a imporre altro che parole. Parole capisci? Parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono. Per esempio: usurajo! per esempio: pazzo! Ma dí un po’: come si può star quieti a pensare che c’è uno che s’affanna a persuadere agli altri che tu sei come ti vede lui, è a fissarti nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di te e ad impedire che gli altri ti vedano e ti giudichino altrimenti?
M’ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo, così, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non me l’ero fatto io, come non me l’ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da altri senza mia volontà; così, senza mia volontà, tant’altre Cose m’erano venute sopra dentro intorno, da altri; tant’altre cose m’erano state fatte, date da altri, a cui effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine, l’immagine strana, nemica, con cui mi s’avventavano adesso.
Ma sì! Ma sì! Che realtà può essere quella che la maggioranza degli uomini riesce a costruire in sé? Misera, labile, incerta. E i sopraffattori, ecco, ne approfittano! O piuttosto, s’illudono di poterne profittare,facendo subire o accettare quel senso e quel valore ch’essi dànno a se stessi, agli altri, alle cose, per modo che tutti vedano e sentano, pensino e parlino a modo loro.
Ci sta il più rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? Hanno bisogno di fabbricare una casa anche loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa. a me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio punto per rispetto a quello che ne avevano gli altri, avevo sempre impedito a Bibì di entrare in una chiesa ma non c’entravo nemmeno io mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi anziché andarmi a inginocchiare nella casa che gli altri avevano costruito.
Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d’accordo.Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente. Domani mi venite con le mani in faccia, gridando: Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto così e così?
Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d’esser tutti in quell’atto. Ci accorgiamo purtroppo che no è così, e che l’atto è invece sempre e solamente dell’uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all’improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.
Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci più o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lì verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lì; e la sentivo.
Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!
Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città! Pare che chiedano, nel vedersi così specchiati in queste vetrine di botteghe, che stiano a farci qua, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestìo della vita cittadina. Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli. Orecchi, non mostrano d’averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sì, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensì per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua, almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia. Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno d’abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.
Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lì come in un’immagine di me necessaria?
Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no.
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare. Ma ora pensavo: «E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere».
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.
Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa. A me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio.
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più.
Viveva con sé, di sé; leggeva, fantasticava, ma sempre insofferente, così delle letture come delle sue stesse fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e seccata di tutto.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio proprio e particolare, sia per non aver mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e a sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva; sia infine per la mia natura così inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui, non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.
Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò nè briglie nè paraocchi; vedevo certamente più di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Cadeva ogni orgoglio. Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano. Parlare per non intendersi. Non valeva più nulla essere per sé qualche cosa. E nulla più era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l’assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.
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Immagini con frasi di Pirandello
Per conoscere ancora meglio il famoso poeta, scrittore e drammaturgo, niente di meglio che una bella collezione di immagini di Pirandello con frasi celebri . Queste fotografie raccontano in breve la vita dell’autore, insieme ai suoi pensieri e alle frasi di novelle dei personaggi da lui inventati. Non ti basterà far altro che scegliere tra le frasi celebri di Pirandello la tua preferita, da salvare sul cellulare o magari condividere sui social.
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