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Baricco frasi del celebre autore
I libri di Alessandro Baricco sono esposti in qualsiasi libreria perché tanto amati dal genere femminile ma anche da chi apprezza il genere letterario dello scrittore. Nelle frasi di Alessandro Baricco si trova la poesia e la gentilezza che abbraccia il lettore fino alla fine delle pagine. Qui di seguito abbiamo raccolte tutte le frasi di Baricco sull’amore, gli aforismi e le frasi sul mare di Baricco. Oltre ad una collezione di immagini con frasi da condividere.
Citazioni di Baricco da leggere e condividere
Con le sue citazioni, Baricco ha riscosso grande successo, già dalla prima pubblicazione del suo romanzo “Castelli di Rabbia” nel 1991. Da allora, le frasi di Baricco sono diventate molto conosciute anche a tutti coloro che non hanno mai letto un suo romanzo. Ecco a voi proposte le parole di Alessandro Baricco aforismi sulla vita e frasi tratte da alcuni dei suoi scritti più famosi come Seta e Novecento.
Disegnato sull’acqua, gli pareva di vedere l’inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita.
Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c’è in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c’è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima. In questo era un genio, niente da dire.
Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli suon buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia… Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa.
Gli sguardi smarriti dei ragazzi a scuola hanno bisogno di senso, di semplice senso della vita, e sono anche disposti ad ammettere che Dante glielo fornirebbe: ma se il cammino da fare è così lungo, e così faticoso, e così poco congeniale alle loro abilità, chi gli assicura che non moriranno per strada, senza mai arrivare alla meta, vittime di una presunzione che è nostra, non loro? Perché non dovrebbero cercarsi un sistema per trovare l’ossigeno prima e in modo a loro più congeniale?
Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo, ardono quelli, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.
Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere.
Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.
Ogni quadro è in definitiva una promessa non mantenuta, e ogni museo una intollerabile via crucis di promesse non mantenute. E davanti a un quadro è uno dei posti migliori in cui esperire il sentimento dell’impotenza. Stando cosi le cose, guardare i quadri è un’attività che conviene centellinare, per non farsi travolgere da quell’impasto di goduria e frustrazione a cui solo anime sottilmente perverse possono sopravvivere.
La musica è l’armonia dell’anima.
La realtà ha una coerenza, illogica ma effettiva.
La sera, come tutte le sere, venne la sera. Non c’è niente da fare: quella è una cosa che non guarda in faccia a nessuno. Succede e basta. Non importa che razza di giorno arriva a spegnere. Magari era stato un giorno eccezionale, ma non cambia nulla. Arriva e lo spegne. Amen.
Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale.
Stava lì, come una candela accesa in un granaio che brucia.
Semplicemente, senza che un solo angolo del suo volto si muovesse, e assolutamente in silenzio, iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all’orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta.
Come sarebbe bello dire per caso? .. Tu credi davvero che ci sia qualcosa che succede per caso?
Così fa il destino: potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti, fra i mille di una vita. Nella notte del ricordo, ardono quelli, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, buoni per darsi una ragione, una qualsiasi.
Crepita, la vita, brucia istanti feroci e negli occhi di chi passa anche solo a venti metri da lì non è che un’immagine come un’altra, senza suono e senza storia.
È una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c’è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po’, l’hai fregato.
Gli erano entrate negli occhi, quelle due immagini, come l’istantanea percezione di una felicità assoluta e incondizionata.
Tutte le bocce di cristallo che avrai rotto erano solo vita… e la vita vera magari è proprio quella che si spacca, quella vita su cento che alla fine si spacca… …io questo l’ho capito, che il mondo è pieno di gente che gira con in tasca le sue piccole biglie di vetro… le sue piccole tristi biglie infrangibili… e allora tu non smetterla mai di soffiare nelle tue sfere di cristallo… sono belle, a me è piaciuto guardarle, per tutto il tempo che ti sono stato vicino… ci si vede dentro tanta di quella roba… è una cosa che ti mette l’allegria addosso… non smetterla mai… e se un giorno scoppieranno anche quella sarà vita a modo suo… meravigliosa vita.
Quando sei giovane il dolore ti colpisce ed è come se ti sparassero… è la fine, ti sembra che sia la fine… il dolore è come uno sparo, ti fa saltare in aria, è come un’esplosione…. ti sembra senza rimedio, una cosa irrimediabile, definitiva… il punto è che non te l’aspetti, questo è il nocciolo della faccenda, che quando sei giovane il dolore non te lo aspetti e lui ti sorprende ed è lo stupore che ti frega, lo stupore. Lo stupore, capisci?Sì.Da vecchio, cioè, quando invecchi… non esiste più quella cosa dello stupore, non riesce più a prenderti di sorpresa… lo senti, questo sì, ma è solo stanchezza che si aggiunge a stanchezza, non esplode più niente, capisci?, è solo come se ti aggiungessero qualche chilo sulle spalle… è come camminare ed avere le scarpe sempre più fradice, di fango, e pesanti.
Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto.
Tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha mai scritto e che invano cerchiamo negli scaffali della nostra mente.
Si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli.
Pioveva la sua vita, davanti ai suoi occhi, spettacolo quieto.
Lasciami andare a vedere il Sogno, la Velocità, il Miracolo, non fermarmi con uno sguardo triste, questa notte lasciami vivere laggiù, sull’orlo del mondo, solo questa notte, poi tornerò. Così si chiuderà il cerchio delle cose non accadute.
Ho diciotto anni e già la felicità ha il sapore della memoria.
Si legge non tanto per imparare né in fondo per essere intrattenuti in modo intelligente: lo si fa per lasciare che quella prosa scorra su certe personali stanchezze, o sconfitte, o disfatte, e ne lenisca il bruciore, sciacquando via lo sporco dalla ferita. Così si legge per il puro piacere della lettura – e per salvarsi.
Perché è così che ti frega la vita. Ti piglia quando hai ancora l’anima addormentata e ti semina dentro un’immagine o un odore o un suono che poi non te lo toglie più. E quella lì era la felicità. Lo scopri dopo, quand’è troppo tardi. E già sei, per sempre un esule: a migliaia di chilometri da quell’immagine, da quel suono, da quell’odore. Alla deriva.
Forse si muore in tanti modi, e ogni tanto mi chiedo se anche noi non lo stiamo facendo senza saperlo.
È importante vedere come la gente sceglie i nomi. Morire e dare nomi – non si fa altro di sincero, probabilmente, per tutto il tempo che si campa.
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi suonare. Loro sono 88, tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere. Ma se tu, ma se io salgo su quella scaletta, e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai, e questa è la verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita.
Tu sei seduto sul seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo, ma le vedevi le strade? Anche solo le strade. Ce n’è a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una, a scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo, quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’è. Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla?
Fare il proprio volo ogni giorno. Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un ‘esercizio spirituale’, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta.
Si ha sempre questa idea di essere capitati nella partita sbagliata, e che con le nostre carte chissà cosa saremmo riusciti a fare se solo ci sedevamo a un altro tavolo da gioco.
E poi chi l’ha detto che si deve proprio vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà? È proprio obbligatorio essere eccezionali?
Non c’è nulla sulla faccia della terra, nulla che respiri o cammini, nulla di così infelice come l’uomo.
Andavo di fantasia, e di ricordi, è quello che ti rimane da fare, alle volte, per salvarti, non c’è più nient’altro. Un trucco da poveri, ma funziona sempre.
Che vantaggio c’è mai per chi combatte, sempre, senza tregua, contro qualsiasi nemico? Il destino è uguale, per il prode e per il vigliacco, uguale è l’onore, per il valoroso e per il vile, e muore ugualmente chi non fa nulla e chi si dà molto da fare: niente mi resta dopo aver tanto sofferto, rischiando in ogni momento la vita nel cuore della battaglia. Come un uccello porta ai suoi piccoli il cibo che si è procurato con grande fatica, così io molte notti insonni ho trascorso, e molti giorni ho consumato a combattere il nemico sul campo insanguinato.
Devo comunicarvi una cosa molto importante, monsieur. Facciamo tutti schifo. Siamo tutti meravigliosi, e facciamo tutti schifo.
È uno strano dolore… Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai.
Se è vero che tutti gli sport sono una metafora della vita, non è da escludere che la vita sia una metafora del tennis.
No. Ma sta’ attento: dato che non siamo calzini ma persone, non siamo qui con il fine principale di essere puliti. I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire per star dietro ad un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi si paga. È solo questo davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare. Solo questo è importante.
La guerra è sempre stata fatta per rimettere in movimento i soldi, per conquistare altri mercati, per entrare in possesso di risorse altrui. Per far respirare il denaro.
Il rugby è un gioco primario: portare una palla nel cuore del territorio nemico. Ma è fondato su un principio assurdo, e meravigliosamente perverso: la palla la puoi passare solo all’indietro. Ne viene fuori un movimento paradossale, un continuo fare e disfare, con quella palla che vola continuamente all’indietro ma come una mosca chiusa in un treno in corsa: a furia di volare all’indietro arriva comunque alla stazione finale: un assurdo spettacolare.
Ovunque ci sia un ragazzino che palleggia contro un muro, ovunque ci siano mammine che mugolano da fondo campo e prepensionati che tentano di ammazzare i loro simili attirandoli a rete con smorzate di inusitata perfidia – ovunque ci sia nel mondo qualcuno che fa titic e titoc con una racchetta in mano, è a Wimbledon che il suo faticare assume un senso, i suoi errori incontrano una redenzione, e le sue miserie scolorano nella gloria. Non sto esagerando, le cose stanno proprio così. Giuro che se Dio giocasse sarebbe socio lì, e non avrebbe neanche l’armadietto migliore.
A me risulta che la ricerca del senso è una sorta di partita a scacchi, molto dura e solitaria, e che non la si vince alzandosi dalla scacchiera e andando di là a preparare il pranzo per tutti. È ovvio che occuparsi degli altri fa bene, ed è un gesto così dannatamente giusto, e anche inevitabile, necessario: ma non mi è mai venuto da pensare che potesse c’entrare davvero con il senso della vita. Temo che il senso della vita sia estorcere la felicità a se stessi, tutto il resto è una forma di lusso dell’animo, o di miseria, dipende dai casi. Peraltro, è anche possibile che mi sbagli. È giusto un pensiero istintivo – un certo modo di vedere il mondo.
Chiedersi cos’è una cosa, significa chiedersi che strada ha fatto fuori da se stessa.
Ereditiamo l’incapacità verso la tragedia, e la predestinazione alla forma minore del dramma.
Quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro alle orecchie e ha deciso di vivere sott’acqua. Ovvio che da fuori, noi, coi nostri polmoncini, ne caviamo l’impressione di un’apocalisse imminente.
Conosciamo l’avvio delle cose e poi ne riceviamo la fine, mancando sempre il loro cuore. Siamo aurora ma epilogo – perenne scoperta tardiva.
Scrivere libri significa puntare i piedi davanti alla verità, dopo averla vista. È la magnificenza di un passo indietro, animale e di danza. Ovviamente dovrebbe essere proibito a chi non dispone della paura e dell’eleganza necessarie.
Prima regola prudenza, la seconda audacia.
Linguaggio è la musica con cui si affascinano i serpenti a guardia dei tesori altrui.
Ci sarà un’alba o un tramonto o un mezzogiorno che mi vedranno morire.
Adoro disseppellire i giorni, a uno a uno, dalla memoria della gente. È come un solitario, è come girare a una a una delle carte sul tavolo.
Perché non dovremmo essere capaci di scambiare la depressione per una forma di eleganza, e l’infelicità per una colorazione appropriata della vita?
Però non accadde nulla, perché alla vita manca sempre qualcosa per essere perfetta.
La medietà è veloce. Il genio è lento. Nella medietà il sistema trova una circolazione rapida delle idee e dei gesti: nel genio, nella profondità dell’individuo più nobile, quel ritmo è spezzato. Un cervello semplice trasmette messaggi più velocemente, un cervello complesso li rallenta.
È una cosa strana. Quando ti accade di vedere il posto dove saresti salvo, sei sempre lì che lo guardi da fuori. Non ci sei mai stato dentro. È il tuo posto, ma tu non ci sei mai.
La vita vera non parla mai. È solo un gioco d’abilità, roba che vinci o perdi, te lo fanno fare per distrarti, così non pensi.
L’idea, per quanto possa sembrare cervellotica, è che il miglior modo di aiutare i poveri è aiutare i ricchi a moltiplicare il denaro: qualcosa finirà in tasca anche ai poveri.
Poiché la disperazione era un eccesso che non gli apparteneva, si chinò su quanto era rimasto della sua vita, e riiniziò a prendersene cura, con l’incrollabile tenacia di un giardiniere al lavoro, il mattino dopo il temporale.
Uno ha una nota, che è sua, e se la lascia marcire dentro… no… statemi a sentire… anche se la vita fa un rumore d’inferno affilatevi le orecchie fino a quando arriverete a sentirla e allora tenetevela stretta, non lasciatela scappare più.
Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no… e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c’aveva già quell’istante stampato nella vita.
C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità.
Il talento vero è possedere le risposte quando ancora non esistono le domande.
La vita è sostanzialmente incoerente e la prevedibilità dei fatti un’illusoria consolazione.
Il tintinnare della vita, spesso, sul tavolo di marmo del tempo, come di perle lasciate cadere.
Certo, era uno che dalla vita non si aspettava nulla di buono. O faceva finta, non lo so. Di fatto non salvava praticamente nulla. Aiutare (v. tr): Crearsi un ingrato. Amicizia (s. f.): Nave abbastanza grande per portare due persone con il tempo buono, una sola con il tempo cattivo. Autostima (s. f.): Stima mal riposta. In genere io non amo particolarmente questo tipo di cinismo brillante, ma in effetti son disposto a perdonarlo, e ad ammirarlo, in chiunque sia in grado di esibirlo con velocissima sintesi. Lui ne era capace. Applauso (s. m.): Eco di una banalità.
Quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui.
Era d’altronde uno di quegli uomini che amano ‘assistere’ alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a ‘viverla’. Si sarà notato che essi osservano il loro destino nel modo in cui, i più, sono soliti osservare una giornata di pioggia.
Questo strano bisogno di correggere le piccole imperfezioni, quando ormai è tardi per fermare l’enormità di un destino sbagliato.
Qualsiasi incantesimo è fragile oltre ogni dire, e velocissima la vita nel suo rapinare.
Gli occhi dei vecchi piangono sempre un po’.
Solo Dio ci basta, le cose mai. Ma non è sempre vero, non è vero per sempre. Basta alle volte l’eleganza di un gesto altrui, o la gratuita bellezza di una parola laica. Lo scintillio di vita, raccolto in destini sbagliati. La nobiltà del male a tratti. Filtra allora una luce che non avremmo sospettato. Si spezza la certezza di pietra e tutto crolla… Mi hanno detto – ci sono un sacco di cose vere, intorno, e noi non le vediamo, ma loro ci sono, e hanno un senso, senza nessun bisogno di Dio. Fammi un esempio. Tu, io, come siamo veramente, non come facciamo finta di essere. Voleva dire che nell’assenza di senso il mondo tuttavia accade, e in quell’acrobazia di esistere senza coordinate c’è una bellezza, perfino una nobiltà, talvolta, che noi non sappiamo – come la possibilità di un eroismo a cui non abbiamo mai pensato, l’eroismo di una qualche verità. Se riconosci questo, coi tuoi occhi, nel fissare il mondo, anche una sola volta, allora sei perduto – c’è ormai un’altra battaglia, per te. Cresciuti nella certezza di essere degli eroi, in altre leggende diventiamo memorabili. Sfuma Dio, come un epilogo infantile.
Credo che adesso che è grande, potrà finalmente essere piccolo, per tutta la vita.
Era un pioniere, non aveva quattro generazioni di artisti del vino alle spalle, e faceva vino dove nessuno aveva mai pensato di fare altro che pesche e fragole.
Volavano lenti, salendo e scendendo nel cielo, come se volessero cancellarlo, meticolosamente, con le loro ali.
Vediamo i saccheggi, ma non riusciamo a vedere l’invasione.
Davvero ci sono momenti in cui l’onnipresente e logica rete delle sequenze causali si arrende, colta di sorpresa dalla vita, e scende in platea, mescolandosi tra il pubblico, per lasciare che sul palco, sotto le luci della libertà vertiginosa e improvvisa, una mano invisibile peschi nell’infinito grembo del possibile e tra milioni di cose, una sola ne lasci accadere.
Tutta quella città… non se ne vedeva la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? E il rumore su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto… e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema. Col mio cappello blu. Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino. Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino. Primo gradino, secondo. Non è quel che vidi che mi fermò. È quel che vidi. Puoi capirlo, fratello?,… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne. C’era tutto. Ma non c’era. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.
Com’è l’Africa? Gli chiedevano. Stanca.
Ognuno di noi, ha bisogno di sogni per vivere.
Tu eri morto, disse, e non c’era più niente di bello, al mondo.
Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio. Ce la farò, vero?
Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro? No, quella è la sola e più dolce custodia di ogni paura-un libro che inizia.
Jasper Gwyn mi ha insegnato che non siamo personaggi, siamo storie, disse Rebecca. Ci fermiamo all’idea di essere un personaggio impegnato in chissà quale avventura, anche semplicissima, ma quel che dovremmo capire è che noi siamo tutta la storia, non solo quel personaggio. Siamo il bosco dove cammina, il cattivo che lo frega, il casino che c’è attorno, tutta la gente che passa, il colore delle cose, i rumori.
A me risulta che la ricerca del senso è una sorta di partita a scacchi, molto dura e solitaria, e che non la si vince alzandosi dalla scacchiera e andando di là a preparare il pranzo per tutti. È ovvio che occuparsi degli altri fa bene, ed è un gesto così dannatamente giusto, e anche inevitabile, necessario: ma non mi è mai venuto da pensare che potesse c’entrare davvero con il senso della vita. Temo che il senso della vita sia estorcere la felicità a se stessi, tutto il resto è una forma di lusso dell’animo, o di miseria, dipende dai casi. Peraltro, è anche possibile che mi sbagli. È giusto un pensiero istintivo – un certo modo di vedere il mondo.
Ha un bello spremersi, il mondo tutto, per intrattenerti con il suo grande show quotidiano, a suon di dollari lacrime e sangue, ma poi c’è sempre la volta che a inchiodarti per la meraviglia è il niente di una frase, letta per caso, lunga poche parole, un’inezia.
Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c’è in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c’è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero.
Io sono Hector Horeau e vi odio. Odio i sonni che dormite, odio l’orgoglio con cui cullate lo squallore dei vostri bambini, odio ciò che toccano le vostri mani marce, odio quando vi vestite per la festa, odio i soldi che avete in tasca, odio la bestemmia atroce di quando vi permettete di piangere, odio i vostri occhi, odio l’oscenità del vostro buon cuore, odio i pianoforti che come bare popolano il cimitero dei vostri salotti, odio i vostri amori schifosamente giusti, odio tutto quello che mi avete insegnato, odio la miseria dei vostri sogni, odio il rumore delle vostre scarpe nuove, odio ogni singola parola che avete mai scritto, odio ogni momento in cui mi avete toccato, odio tutti gli istanti in cui avete avuto ragione, odio le madonne che pendono sui vostri letti, odio il ricordo di quando ho fatto l’amore con voi, odio i vostri segreti da niente, odio tutti i vostri giorni più belli, odio tutto quello che mi avete rubato, odio i treni che non vi hanno portato lontano, odio i libri che avete lordato con i vostri sguardi, odio lo schifo delle vostre facce, odio il suono dei vostri nomi, odio quando vi abbracciate, odio quando battete le mani, odio quel che vi commuove, odio ogni singola parola che mi avete strappato, odio la miseria di quel che vedete quando guardate lontano, odio la morte che avete seminato, odio tutti i silenzi che avete straziato, odio il vostro profumo, odio quando vi capite, odio qualsiasi terra che vi abbia ospitato, e odio il tempo passato su di voi.
Ogni minuto di quel tempo è stata una bestemmia. Io disprezzo il vostro destino.
C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità.
E se io ci ripenso, mi sembra che era quella cosa lì, essere felici.
Per questo siamo in grado di metabolizzare incredibili dosi di infelicità scambiandole per il doveroso corso delle cose: non ci sfiora il sospetto che nascondano ferite da curare, e fratture da ricomporre.
Pensava che era una fortuna essere un genio perché era un modo di salvarsi la vita.
Vecchio, benedetto, Pekisch, questo non me lo dovevi fare. Non me lo merito. Io mi chiamo Pehnt, e sono ancora quello che se ne stava sdraiato per terra a sentire la voce nei tubi, come se quella arrivasse davvero, e invece non arrivava. Non è mai arrivata. E io adesso sono qui. Ho una famiglia, ho un lavoro e la sera vado a letto presto. Il martedì vado a sentire i concerti che danno alla sala Trater e ascolto musiche che a Quinnipak non esistono: Mozart, Beethoven, Chopin. Sono normali eppure sono belle. Ho degli amici con cui gioco a carte, parlo di politica fumando il sigaro e la domenica vado in campagna. Amo mia moglie, che è una donna intelligente e bella. Mi piace tornare a casa e trovarla lì, qualsiasi cosa sia successa nel mondo quel giorno. Mi piace dormire vicino a lei e mi piace svegliarmi insieme a lei. Ho un figlio che amo anche se tutto fa supporre che farà l’assicuratore. Spero che lo farà bene e che sarà un uomo giusto. La sera vado a letto e mi addormento. E tu mi hai insegnato che questo vuol dire che sono in pace con me stesso. Non c’è altro. Questa è la mia vita.
I desideri sono la cosa più importante che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire per star dietro ad un proprio desiderio.
Suonavamo perché l’Oceano è grande, e fa paura, suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era, e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio.
Ognuno ha davanti le sue rotaie, che le veda o no.
Crepita, la vita, brucia istanti feroci e negli occhi di chi passa anche solo a venti metri da lì non è che un’immagine come un’altra, senza suono e senza storia.
Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?, sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto.
Mi ha detto che secondo lui la gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo, è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Quando aspetti o ricordi non sei né triste né felice. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.
Ignoravano la successione dei giorni, perché miravano a viverne uno solo, perfetto, ripetuto all’infinito: quindi il tempo era per loro un fenomeno dai contorni labili che risuonava nelle loro vite come una lingua straniera.
In genere, quando un libro riesce a ottenere un simile risultato contiene una di queste quattro domande: chi è l’assassino? Il protagonista troverà se stesso? Ma alla fine si sposeranno? Chi dei due vincerà? Open ne contiene tre su quattro, e le intreccia molto bene: le possibilità di sottrarsi alla trappola sono pari a zero. (Manca l’omicidio, ma se si largheggia un po’, l’idea di far allenare il proprio figlio di sette anni tirandogli 2.500 palline al giorno assomiglia molto a una specie di avvelenamento metodico, e quella era l’idea di educazione che aveva in testa il padre di Agassi).
È molto bella l’immagine di un proiettile in corsa: è la metafora esatta del destino. Il proiettile corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque.
Si chiese se c’è una possibilità, una sola, di tornare a guardare lontano quando davanti abbiamo sempre, tutti, qualche rovina che fuma.
Improvvisamente iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all’orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta.
La crudeltà è la virtù per eccellenza dei mediocri, hanno bisogno di esercitare la crudeltà, esercizio per cui non è necessaria la minima intelligenza.
Occorre scolpire la propria statua: lavorare su se stessi, scalpellando via tutto ciò che di falso o inutile ci sta attaccato, e liberare, alla fine, quel che noi siamo, nella saldezza imperturbabile della magnificenza dell’esistere. Allora saremmo, davvero, dei sapienti: che non è il nome di uno che sa tutto, è il nome di uno che non ha più paura di niente. Guarito.
Nessuno deve credere di esser solo, perché in ciascuno vive il sangue di coloro che l’hanno generato, ed è una cosa che va indietro fino alla notte dei tempi. Così siamo solo la curva di un fiume, che viene da lontano e non si fermerà dopo di noi. Alle volte non facciamo altro che finire lavori lasciati a metà. E iniziare lavori che altri finiranno per noi.
Si scopre alla fine che il dolore, tutto quel dolore, era inutile, che si è sofferto come bestie, ed era inutile, non era né giusto né ingiusto, non era bello o brutto, era solo inutile.
Per quanto uno si sforzi di vivere una sola vita, gli altri ce ne vedranno dentro altre mille, e questa è la ragione per cui non si riesce a evitare di farsi male.
La crudeltà è la virtù per eccellenza dei mediocri, hanno bisogno di esercitare la crudeltà, esercizio per cui non è necessaria la minima intelligenza.
Rubi minuti alla sera. Li chiami: “Vita”. Respiri.
Per quanto assurdo sia, c’è un’unica tenebra per tutti.
Per questo siamo in grado di metabolizzare incredibili dosi di infelicità scambiandole per il doveroso corso delle cose: non ci sfiora il sospetto che nascondano ferite da curare, e fratture da ricomporre.
Il vino hollywoodiano si è imposto nel mondo anche per la ragione ovvia che è di matrice americana. Puoi inventarti tutte le ragioni raffinate che vuoi, ma alla fine, se vuoi capire come mai oggi nello Yemen bevono vino hollywoodiano, e in Sudafrica producono vino hollywoodiano e perfino nelle Langhe lo fanno, la risposta più semplice è: perché la cultura americana è la cultura dell’impero. E l’impero è ovunque, anche nelle Langhe.
Gli uomini hanno case, ma sono verande.
Voglio dire che ad affascinarlo, nel presente, erano gli indizi delle mutazioni che, quel presente, avrebbero dissolto.
Si semina, si raccoglie, e non c’è nesso tra una cosa e l’altra. Ti insegnano che c’è, ma… non so, io non l’ho mai visto. Accade di seminare, accade di raccogliere, tutto lì. Per questo la saggezza è un rito inutile e la tristezza un sentimento inesatto, sempre. Seminammo con cura, tutti, quella volta, seminammo immaginazione, e follia e talento. Ecco cosa abbiamo raccolto, un frutto ambiguo: la luce bella di un ricordo e il privilegio di una commozione per sempre ci renderà eleganti, e misteriosi. Voglia il cielo che questo basti a salvarci, per tutto il tempo che ci sarà dato, ancora.
Con una matita, allora, ogni tanto scriveva parole, poi strappava il foglietto e lo attaccava con una puntina al pavimento di legno, scegliendo ogni volta un posto diverso, come uno che disponesse trappole per topi.
Non credo che ci sia bisogno di spiegarvi come questa nave sia, in molti sensi, una nave straordinaria e in definitiva unica.
Aveva otto anni e si era già fatto avanti e indietro dall’Europa all’America una cinquantina di volte. L’Oceano era casa sua. E quanto alla terra, be’, non ci aveva mai messo piede. L’aveva vista, dai porti, certo. Ma sceso, mai.
Corse via come se fosse in ritardo di anni. In un certo modo, lo era.
Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa… e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire, ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte, magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni… alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare…e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America.
Poi fece una cosa strana con la bocca, forse era un sorriso, aveva un dente d’oro proprio qui, così in centro che sembrava l’avesse messo in vetrina per venderlo.
Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento. Di colpo, o agonizzando un po’ Chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.
Di cosa siamo capaci, pensò. Crescere, amare, fare figli, invecchiare – e tutto questo mentre anche siamo altrove, nel tempo lungo di una risposta non arrivata, o di un gesto non finito. Quanti sentieri, e a che passo differente li risaliamo, in quello che sembra un unico viaggio.
Uno che su una nave suona la tromba, non è che quando arriva la burrasca possa fare un granché. Può giusto evitare di suonare la tromba, tanto per non complicare le cose.
Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro.
Era un filo d’oro che correva diritto nella trama di un tappeto tessuto da un folle.
In realtà, terra per coltivare chardonnay, cabernet sauvignon o merlot ce n’è a bizzeffe e in molte regioni del globo.
Lei non è vecchia. Lei è morta.– La signora alzò le spalle. – Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.
Prese i fogli in mano. Odiava leggere a voce alta le cosa che aveva scritto – leggerle ad altri. Gli era sempre sembrato un gesto senza vergogna. Ma lì iniziò a farlo, cercando di farlo bene – con la lentezza che era necessaria, e la cura. Molte frasi già gli sembravano inesatte, ma si costrinse a leggere tutto proprio come l’aveva scritto.
Guardava quella casa, davanti a sé, e pensava alla misteriosa permanenza delle cose nella corrente mai ferma della vita. Stava pensando che ogni volta, vivendo con loro, si finisce per lasciare su di loro come una mano leggera di vernice, la tinta di certe emozioni destinate a scolorare, sotto il sole, in ricordi.
Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima.
A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni?
Si sedette sui gradini, senza entrare. Era ancora buio. C’erano rumori strani, rumori che di giorno non si sentono. Come briciole di cose che erano rimaste indietro, e adesso si davano da fare per raggiungere il mondo, e arrivare puntuali all’alba, nel ventre del rumore planetario.
È che qualsiasi fiume prima di arrivare al mare fa esattamente una strada tre volte più lunga di quella che farebbe se andasse diritto, sbalorditivo, se ci pensi, ci mette tre volte tanto quello che sarebbe necessario, e tutto a furia di curve, appunto, solo con questo stratagemma delle curve, è quello che hanno scoperto con scientifica sicurezza a forza di studiare i fiumi, tutti i fiumi, hanno scoperto che non sono matti, è la loro natura di fiumi che li obbliga a quel girovagare continuo, e perfino esatto, tanto che tutti, dico tutti, alla fine, navigano per una strada tre volte più lunga del necessario, anzi, per essere esatti, tre volte virgola quattordici, giuro, il famoso pi greco, non ci volevo credere, in effetti, ma pare che sia proprio così, devi prendere la loro distanza dal mare, moltiplicarla per pi greco e hai la lunghezza della strada che effettivamente fanno, il che, ho pensato, è una gran figata, perché, ho pensato, c’è una regola per loro vuoi che non ci sia per noi.
Cosa volevo dire?, quella storia dei fiumi, sì, è una storia che se ci pensi è rassicurante, io la trovo molto rassicurante, che ci sia una regola oggettiva dietro a tutte le nostre stupidate, è una cosa rassicurante, tanto che ho deciso di crederci, e allora, ecco, quel che volevo dire è che mi fa male vederti navigare curve da schifo come quella di Couverney, ma dovessi anche andare ogni volta a guardare un fiume, ogni volta, per ricordarmelo, io sempre penserò che è giusto così, e che fai bene ad andare, per quanto solo a dirlo mi venga da spaccarti la testa, ma voglio che tu vada, e sono felice che tu vada, sei un fiume forte, non ti perderai.
Tiepida la notte di maggio a Parigi, mille novecento tre. Dalle loro case, centomila parigini lasciarono a metà la notte, scolando in massa verso le stazioni Saint-Lazare e Montparnasse, stazioni ferroviarie.
Alcuni neanche andarono a dormire, altri puntarono la sveglia a un’ora assurda per poi scivolare via dal letto, lavarsi senza far rumore e sbattere nelle cose, cercando la giacca. In alcuni casi erano intere famiglie a venir via, ma per lo più furono singoli individui a intraprendere il viaggio, spesso contro ogni logica o buon senso. Le mogli, nel letto, poi, stiravano le gambe dalla parte adesso vuota. I genitori scambiavano due parole, dedotte dalla discussione del giorno prima, dei giorni prima, delle settimane prima.
Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato.
Il padre che non sarò mai l’ho incontrato guardando un bambino morire, per giorni, seduto accanto a lui, senza perdere niente di quello spettacolo tremendo, bellissimo, volevo essere l’ultima cosa che guardava al mondo, quando se ne andò, guardandomi negli occhi, non fu lui ad andarsene ma tutti i figli che mai ho avuto.
Raccontò che c’erano due strade, per tornare a casa, ma solo in una si sentiva il profumo di more, sempre, anche d’inverno. Disse che era la più lunga. E che suo padre prendeva sempre quella, anche quando era stanco, anche quand’era vinto.
Non si può seminare senza prima arare. Prima si deve spaccare la terra.
Per un lungo istante, che forse non è ancora finito, la distinzione tra profeti e coglioni è diventata visibile solo a occhi molto freddi e allenati. Ce n’era abbastanza per sconcertare i più lenti e per mettere in allarme i più svegli.
Sono mai stato in un attimo che non fosse questo?
Minuscole onde circolari posavano l’acqua del lago sulla riva, come spedite, lì, da lontano.
Col tempo iniziò a concedersi un piacere che prima si era sempre negato: a coloro che andavano a trovarlo, raccontava dei suoi viaggi. Ascoltandolo, la gente di Lavilledieu imparava il mondo e i bambini scoprivano cos’era la meraviglia. Lui raccontava piano, guardando nell’aria cose che gli altri non vedevano.
C’era questo mio figlio piccolo, un omino di tre anni, che si era inerpicato su una sedia per guardare da vicino il giornale che avevo lasciato aperto sul tavolo. Non intendeva leggerlo, non era cosi intelligente. L’aveva attirato la foto di un calciatore, ed era salito sulla sedia per guardarsela bene. Io lo controllavo dalla stanza vicina, giusto per vedere che non cadesse giù. Ma invece di cadere iniziò a sfiorare la foto con un dito, proprio come faceva il vecchio Jobs, quel giorno, davanti a tutta quella gente.
Rimase per un attimo interdetto a fissare quella fissità e io sapevo che stava misurando la disfatta di un’intera civiltà, la mia. Capii in quel momento che da grande non avrebbe letto giornali cartacei e a scuola si sarebbe rotto i coglioni a palla.
Tutto li stupiva: in segreto, anche la loro felicità.
Era una specie di lancinante, dolorosa meraviglia.
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Alessandro Baricco, frasi da condividere
In questa sezione proviamo a concentrarci unicamente su chi è l’autore. Sono molte le frasi di Alessandro Baricco rilasciate nelle interviste in cui egli parla ai lettori e al pubblico di attualità, dell’Italia e più in generale della sua visione della vita. Ecco a voi un ottimo modo per conoscere Baricco: frasi celebri da leggere e condividere.
Non esistono grandi scrittori, esistono solo grandi libri. I grandi libri sgorgano dalla terra dei racconti dopo percorsi sotterranei che non sappiamo, come laghi che raccolgono le sorgenti più diverse e mescolano mille nevi in un’unica acqua, che poi prende un nome, e quel nome è quello di un uomo che scrive.
È probabile che l’emergenza Covid 19 finirà per rivelarsi come un crinale storico di immensa importanza. Provo a dirla così: è la prima emergenza planetaria generata dall’epoca del Game, della rivoluzione digitale, e l’ultima emergenza planetaria che sarà gestita da un’élite e da un’intelligenza di tipo novecentesco.
È stato lui il primo bianco ad affidare alla musica leggera un patrimonio di contenuti civili, una tradizione che apparteneva ai negri d’America. Una novità. E, nello stesso tempo, mi pare quasi che le canzoni di Bob Dylan siano esistite da sempre. Fossi della generazione di Dylan sarei sicuramente un suo grande fan, ma forse per quelli della mia sono state più importanti le canzoni di Guccini o di Vasco.
Questo ostinato sospetto che la percezione del mondo dettata dalle nuove tecnologie si perda tutta una parte della realtà, probabilmente la migliore: quella che pulsa sotto la superficie delle cose, là dove solo un cammino paziente, faticoso e raffinato può condurre.
Suonerà assurdo, ma niente di tutto quello che ho raccontato sarebbe probabilmente successo senza l’invenzione dell’aria condizionata.
Non esistono piani giusti e piani sbagliati e non esistono regole migliori di altre. Esistono piani che vincono, e quelli stabiliscono le regole che gli altri, ingenuamente, adotteranno come regole giuste.
Quando non sai cos’è, allora è jazz.
Ci sono molti modi per scoprire cos’è la solitudine, ma solo due prevedono che lo si faccia in compagnia di un’altra persona e costretti in pochi metri quadri: il matrimonio e il tennis. Entrambi godono, giustamente, di una vasta platea di appassionati.
Senza fatica non c’è premio, e senza profondità non c’è anima.
La volgarità, la meta esotica chiaramente sessuale, i modi da padroni del mondo, la malcelata certezza di esser i più furbi. Non mi vergogno di dire che istintivamente li disprezzo. Non credo che sia per moralismo puro e semplice, anzi lo escludo. È che, dato per scontato il diritto degli umani a morire da vivi, e non da morti, non amo chi sostituisce la razzia al rito del seminare e del raccogliere.
Si considera la guerra un male da evitare, certo, ma si è ben lontani da considerarla un male assoluto: alla prima occasione, foderata di begli ideali, scendere in battaglia ridiventa velocemente un’opzione realizzabile. La si sceglie, a volte, perfino con una certa fierezza. Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace io la vedo soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni di artigiani che ogni giorno lavorano per suscitare un’altra bellezza e il chiarore di luci limpide che non uccidono.
Non sei fregato veramente finché hai una buona storia da raccontare e qualcuno a cui raccontarla.
Stiamo generando una civiltà piacevole ma che non sembra in grado di reggere l’onda d’urto del reale. E una civiltà festiva, ma il mondo e la storia non lo sono: smantellare la nostra capacità di pazienza, fatica, lentezza non finirà per produrre generazioni incapaci di resistere ai rovesci della sorte o anche solo alla violenza inevitabile di qualsiasi sorte?
Globalizzazione è il nome che diamo a cose come internazionalismo, colonialismo, modernizzazione, quando decidiamo di sommarle ed elevarle ad avventura collettiva, epocale, epica.
Non si vive di tennis, è ovvio, ma molte cose smettono di morire per un attimo, ogni volta che Federer stacca un rovescio lungo linea. Ne sono sicuro.
Bisogna invertire quella dannata sequenza: prima la rivoluzione mentale, poi quella tecnologica. Pensiamo che i computer abbiano generato una nuova forma di intelligenza (o stupidità, chiamatela come volete): invertite la sequenza, subito: un nuovo tipo di intelligenza a generato i computer. Che vuol dire: una certa mutazione mentale si è procurata gli strumenti adatti al suo modo di stare al mondo e l’ho fatto molto velocemente: quel che ha fatto lo chiamiamo rivoluzione digitale.
Puoi spendere anni a vivere, ore a leggere libri, milioni a farti allenare dallo psicanalista: ma alla fine la palla è in rete che finisce. L’errore annulla qualsiasi passato nell’istante in cui arriva a bruciarti qualsiasi futuro. L’errore azzera il tempo, qualsiasi tempo. Vedi cosa riesce a spiegarti, il tennis, senza dare nell’occhio: che quando sbagli, nel preciso istante in cui lo fai, sei eterno.
A chi fa un sacco di fatica a capire la propria zolla di terra, non resta molto per capire il resto del campo.
La fondamentale differenza tra Roger Federer e gli altri giocatori di tennis del pianeta non è quella che risulta più evidente, cioè il fatto che, alla lunga, lui vinca. Quello è un corollario, talvolta una coincidenza, spesso una conseguenza logica. La vera differenza tra lui e gli altri, come tutti sanno, è che gli altri giocano a tennis, lui invece fa una cosa che ha più a che vedere col respirare, o col volo degli uccelli migratori, o col rinforzare del vento la mattina. Qualcosa che è scritto già da un sacco di tempo, inevitabile, nell’andare delle cose. Qualcosa di naturale. Accidentalmente Federer tiene una racchetta in mano, ma nel vederlo giocare si tende a dimenticare che quella è una racchetta e si è portati a credere che sia una sorta di chela, originariamente posseduta dagli umani, e poi deposta perché evidentemente ritenuta poco idonea alla lotta per la sopravvivenza: deposta da tutti tranne da lui, uscito indenne da secoli di mutazione genetica, per ragioni oscure (deve c’entrare il carattere isolazionista della Svizzera).
Un po’ come se la capacità di ribellarsi ai governi fosse una sorta di lusso che non ti puoi permettere quando sei in una vera emergenza. Si è riformata una sorta di tacita alleanza tra i media e le classi dirigenti che si sono trovati più o meno dalla stessa parte, tutti rivolti alla scienza nel momento del bisogno.
Detto questo non potremo non fare i conti con tutti i nodi della civiltà digitale, i nodi ancora irrisolti, e ce ne sono 4 o 5 essere a essere buoni. Diciamo 4 o 5 belli grossi, ecco.
Vorrei studiare i saccheggi non tanto per spiegare com’è andata e cosa si può fare per ritirarsi in piedi, quanto per arrivare a leggerci dentro il modo di pensare dei barbari.
Si imparano un sacco di cose, avendo la pazienza di farlo.
E allora, vedi, c’è tutta questa parte di mondo, una parte di mondo che era sotto scacco nella grande crisi post-rivoluzione digitale, che adesso si trova improvvisamente compatta e in un habitat che le è consono, dove in fondo riesce a dare il meglio di sé. Un posto in cui può tenere i suoi competitor lontani da una forma sensibile di ribellione.
A prescindere da cultura alta o bassa, è il racconto della realtà che ti incunea la realtà nella testa, e te la fa esplodere dentro. I fatti diventano tuoi o quando ti schiantano la vita, direttamente, o quando qualcuno te li compone in racconto e te li spedisce in testa. Che vuol dire anche: raccontare non è un vezzo da dandy colti, è una necessità civile che salva il reale da un’anestetizzata equivalenza. Il racconto, e non l’informazione, ti rende padrone della tua storia.
Gli sconfitti escono dalle guerre con una vitalità e un’energia creativa che i vincitori si sognano.
C’è una cosa che si chiama realtà, ed è una sorta di campo da gioco dove noi ogni mattina prendiamo delle decisioni.
Da molti anni ormai, ben prima del Coronavirus, i media hanno iniziato a fabbricare una merce che sembra essere l’unico prodotto ancora spendibile e con cui lavorano fin troppo bene: la paura.
A me non piacciono molto i libri che vai avanti perché vuoi vedere come va a finire. Mi piacciono quelli in cui, potendo, staresti lì, senza andare avanti. Quelli che sono un paesaggio, e non una strada.
La prossima volta che nasco ateo, lo faccio in un paese dove quelli che credono in Dio credono in un Dio felice.
Mia mamma era ancora piccolina nella seconda guerra mondiale, era stata sfollata in campagna e doveva farsi 13 km al giorno a 13 anni, l’età di mio figlio adesso, per andare a scuola. C’erano i posti di blocco dei nazisti, qui in Piemonte, ma ci andava.
La prima cosa che bisogna fare è avere uno schema d’attacco. Non è che si possa stare tutto il tempo a parare colpi di qui e di là.
Quando noi usiamo la parola audace indichiamo qualcosa che, da un punto di vista intellettuale, è un misto tra disponibilità a soffrire e di brillantezza nel trovare una mossa sorprendente. Ed è esattamente quello di cui noi oggi abbiamo bisogno.
C’è una massa enorme di storytelling. Una realtà che si è messa in moto e che condiziona moltissimo gli uomini nelle loro decisioni.
Questo accanirsi nel trovare una soluzione, soltanto una, in base a un’idea di fedeltà, a un principio tipicamente novecentesco, mi sembra superata. Il giocatore di videogame ma, in generale, l’uomo digitale non ha il mito della fedeltà alle sue scelte ed è perfetto per questi tempi.
Noi siamo cattolici e non siamo abituati a distinguere tra il valore estetico e il valore morale.
Quello che esiste, invece, è la possibilità che sistemi complessi partoriscano situazioni imprevedibili e che gente molto veloce riesca a convertire queste situazioni in strategie di gioco buone per lui. Questo sì esiste.
Sarebbe enormemente difficile in questo momento scrivere un libro.Chi suona non riesce a suonare, chi balla non riesce a ballare, gli unici sono quelli che cucinano, loro riescono a cucinare, quello sì. Però tutti hanno il problema di focalizzarsi sul gesto che gli è più consueto, persino quello per cui hanno un particolare talento.
Il tutto continua con una logica ferrea e naturalmente dei risultati si ottengono, ma la mentalità è esattamente quella che ha aperto moltissimi problemi nel Novecento.
Casa mia, che non è lontano da Torino, saranno otto chilometri, è già un po’ in campagna. E quindi sono qui, come si suol dire nella cesta dei fortunati, perché ho un giardino.
Per il resto, devo dire che paradossalmente — come tanti — vivo una quotidianità perfino deliziosa. Lo dico serenamente, perché con questo ronzio, questa nebbia nella testa, con questa intollerabile impressione di prigionia poi, nel dettaglio, sono giornate che posso definire migliori di quelle che avevo prima, ecco. Se vi faccio vedere la mia agenda dei giorni prima del Coronavirus sembra l’agenda di un pazzo, almeno vista da qua.
Se vogliamo spiegare perché viviamo dell’antropocene la spiegazione è semplice: perché gli umani sono capaci di storytelling e quindi anche di fake news.
Oggi la pace è poco più che una convenienza politica: non è certo un sistema di pensiero e un modo di sentire veramente diffusi.
Non c’è una definizione della stupidità, però ce ne sono molti esempi.
È un viaggio per viandanti pazienti, un libro.
L’altro giorno sentivo un ministro italiano che diceva che chiudere un paese è relativamente facile, ma riaprirlo di una difficoltà mostruosa. Sono tutti molto preoccupati e sembra che stiano brancolando nel buio. Gli israeliani sono pochi: in questo senso hanno un vantaggio rispetto a noi. Possono gestire dei numeri che forse sono più controllabili, ecco. Già solo i numeri italiani sono più difficili e il compito sarà arduo.
L’educazione è una cosa che non può fermarsi mai, mai. Neppure in guerra di fatto si è mai fermata.
Abbiamo della nebbia in testa, un ronzio nelle orecchie costante, che è quello che non capiamo e che probabilmente ci manca. Una sorta di opposizione, perché per chiuderti in casa devi avere qualcuno fuori che ti insegue. Solo così puoi andarti a nascondere. Devi avere qualcosa da fare con le mani, per poter smettere e iniziare a scrivere.
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Alessandro Baricco frasi celebri tratte da Oceano mare
Oceano mare è uno dei romanzi più venduti di Alessandro Baricco. Il tema principale di tutta la narrazione è il mare che avvolge come un’onda i personaggi protagonisti della storia. Sono tre le storie contenuto all’interno del libro: si parte con la Locanda Almayer, a seguire il Ventre del Mare e per concludere, I canti del Ritorno. Qui di seguito le parole più belle tratte da Oceano mare di Baricco: frasi emozionanti sul mare, sull’amore e sulla voglia di inseguire i propri sogni, a qualsiasi età.
Sul mare, tanto tempo fa, naufraga una fregata francese, 147 uomini cercano salvezza su una zattera. Il mare massacro, da vicino. Il mare slavina, da lontano. Il mare che raccoglie e disperde vite. L’avventura di sopravvivergli e di raccontarlo.
La vita si ascolta così come le onde del mare. Le onde montano, crescono… cambiano le cose. Poi, tutto torna come prima… ma non è più la stessa cosa.
Se lo guardi non te ne accorgi: di quanto rumore faccia. Ma nel buio… Tutto quell’infinito diventa solo fragore, muro di suono, urlo assillante e cieco. Non lo spegni, il mare, quando brucia nella notte.
Sai cos’è bello, qui? Guarda: noi camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia e non ci sarà più nulla, un’orma, un segno qualsiasi, niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. È come se noi non fossimo mai esistiti. Se c’è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. È tempo. Tempo che passa. E basta.
Il mare è senza strade, il mare è senza spiegazioni.
È uno specchio, questo mare. Qui, nel suo ventre, ho visto me stesso. Ho visto davvero.
Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorare qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una sola parola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare.
L’ultima luce, nell’ultima finestra, si spegne. Solo l’inarrestabile macchina del mare continua a svellere il silenzio con la ciclica esplosione di onde notturne, lontane ricordanze di tempeste sonnambule e naufragi di sonno. Notte sulla locanda Almayer.
Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare” – ed è un pensiero che dà i brividi.
C’è solo il mare. Ogni cosa è diventata mare. Noi abbandonati dalla terra siamo diventati il ventre del mare, e il ventre del mare è noi, e in noi respira e vive.
Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.
Quando facevo i ritratti alla gente iniziavo dagli occhi. Li studiavo per minuti e minuti, li abbozzavo con la matita e quello era il segreto perché una volta che voi avete disegnato gli occhi.. Succede che tutto il resto viene da sé, è come se tutti gli altri pezzi scivolassero da soli intorno a quel punto iniziale il problema è: dove cavolo sono gli occhi del mare?
In bilico sull’orlo della terra, a un passo dal mare in burrasca, riposava immobile la locanda Almajer, immersa nel buio della notte come un ritratto, pegno d’amore, nel buio di un cassetto.
Il mare incanta, il mare uccide, commuove, spaventa, fa anche ridere, alle volte, sparisce, ogni tanto, si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezze, non dà risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile. Ma soprattutto: il mare chiama. Lo scoprirai, Elisewin. Non fa altro, in fondo, che questo: chiamare. Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole. Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti.
Questi mari che vedi e tutti gli altri che non vedrai, ma che ci saranno, sempre in agguato e pazienti, un passo oltre la tua vita. Instancabilmente, li sentirai chiamare. Succede in questo purgatorio di sabbia. Succederebbe in qualsiasi paradiso, ed in qualsiasi inferno. Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare che ti chiamerà.
Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno un padre, un amore, qualcuno capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume immaginarlo, inventarlo e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita.
Ma tutto sarebbe, finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.
Non è che la vita vada come tu te la immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. Io non è che volevo essere felice, questo no. Volevo… salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però troppo tardi l’ho capito.
Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. È lì che salta tutto, non c’è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo. Mi sono fatta tanto di quel male che tu non puoi nemmeno immaginare.
Fanno delle cose, le donne, alle volte, che c’è da rimanerci secchi. Potresti passare una vita a provarci: ma non saresti capace di avere quella leggerezza che hanno loro, alle volte. Sono leggere dentro. Dentro.
La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l’ottava i fantasmi della follia, la nona è la carne e la decima è un uomo che mi guarda e non uccide. L’ultima è una vela. Bianca. All’orizzonte.
Il mare. II mare? Il mare.
Alla fine, d’improvviso, vedevi il mare. Non l’aveva mai visto prima, lui. Ne era rimasto fulminato. L’aveva salvato, a voler credere a quello che diceva. Diceva: “È come un urlo gigantesco che grida e grida, e quello che grida è: ‘banda di cornuti, la vita è una cosa immensa, lo volete capire o no? Immensa.
Aveva in faccia quell’espressione che ha la gente, ogni tanto, quando proprio ha la testa vuota, svuotata, felice. Sono momenti strambi. Saresti capace di fare, senza saper perché, qualsiasi fesseria.
Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.
Lì finisce il mare. Il mare immenso, l’oceano mare, che infinito corre oltre ogni sguardo, l’immane mare onnipotente – c’è un luogo dove finisce, e un istante – l’immenso mare un luogo piccolissimo e un istante da nulla.
E finalmente riaffiorava alla luce negli occhi di una donna d’oltremare, incontrata tanti anni prima e mai più vista, per andarsi a fermare, al termine di un simile periplo della mente, nel profumo di un frutto che, gli aveva detto, cresceva solo in riva al mare, nei paesi del sud: e a mangiarlo si sentiva il gusto del sole.
Questo, mi ha insegnato il ventre del mare. Che chi ha visto la verità rimarrà per sempre inconsolabile.
Occorre sempre seminare dietro una pretesto per tornare, quando si parte.
Il mondo di fuori è sempre là. Puoi fare qualsiasi cosa ma stai certo che te lo ritrovi al suo posto, sempre. C’è da non crederci, ma è così.
Sapete, è geniale questa cosa che i giorni finiscono. È un sistema geniale. I giorni e poi le notti. E di nuovo i giorni. Sembra scontato, ma c’è del genio. E là dove la natura decide di collocare i propri limiti, esplode lo spettacolo. I tramonti.
Chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano.
Succede. Uno si fa dei sogni, roba sua, intima, e poi la vita non ci sta a giocarci insieme, e te li smonta, un attimo, una frase, e tutto si disfa. Succede. Mica per altro che vivere è un mestiere gramo. Tocca rassegnarsi. Non ha gratitudine, la vita, se capite cosa voglio dire.
Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una parola sola o in un sola parola tutto nascondiamo?
Spiaggia. E mare. Luce. Il vento del nord. Il silenzio delle maree. Giorni. Notti. Una liturgia.Immobile, a ben vedere. Immobile. Persone come gesti di un rito. Qualcosa d’altro che uomini.Gesti. Se li respira la strisciante cerimonia quotidiana, trasfigurati in ossigeno per un angelico surplace. Se li metabolizza il perfetto paesaggio della riva, convertiti a figure da ventagli di seta. Ogni giorno più immutabili. Posati a un passo dal mare, diventano scomparendo, e negli interstizi di un elegante nulla ricevono la consolazione di una provvisoria inesistenza. Galleggia, su quel trompe-l’oeil dell’anima, l’argentino tintinnare delle loro parole, unica percepibile increspatura nella quiete dell’innominabile incantesimo.
Sapete una cosa? Avrei detto che gli ammiragli stessero sul mare…Anch’io avrei detto che i preti stessero nelle chiese. Oh, bè, sapete, Dio è dappertutto. Anche il mare, Padre. Anche il mare.
L’unica persona che mi abbia davvero insegnato qualcosa, un vecchio che si chiamava Darrell, diceva sempre che ci sono tre tipi di uomini: quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tornare, vivi. E diceva: vedrai la sorpresa quando scoprirai quali sono i più felici.
Il mare. Ricovero di qualsiasi destino e cuore che respira, inizio e fine, orizzonte e sorgente, padrone del nulla, maestro del tutto.
Scivolò via come un’onda, solo la più bella delle altre.
Io una volta ho visto gli angeli. Stavano sulla riva del mare.
Il mare – vide il barone sui disegni dei geografi – era lontano. Ma soprattutto – vide nei suoi sogni – era terribile, esageratamente bello, terribilmente forte – disumano e nemico – meraviglioso. E poi era colori diversi, odori mai sentiti, suoni sconosciuti – era l’altro mondo.
A volte basta nulla per dimenticare il gran mare di latte che intanto ti frega. È sufficiente magari il rumore chioccio di una parola strana. Enciclopedia. Una sola parola. Partiti. Tutti quanti.
Si sentiva il mare, come una slavina continua, tuono incessante di un temporale figlio di chissà che cielo. Non smetteva un attimo. Non conosceva stanchezza. Non conosceva clemenza.
Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è vivere che voglio.
Venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capi a piedi l’universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è meraviglioso. Questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, lo erano quei due, lontano più di chiunque altro.
Dovessi vivere ancora mille anni, amore sarebbe il nome del peso lieve di Therese, tra le mie braccia, prima di scivolare tra le onde. E destino sarebbe il nome di questo oceano mare, infinito e bello.
Le donne. Il mare sembrava, tutto d’un tratto, averle aspettate da sempre. A credere ai medici, stava lì, da millenni, perfezionandosi pazientemente, nell’unico preciso intento di offrirsi come unguento miracoloso da offrire alle loro pene, dell’animo e del corpo. Così come andavano ripetendo in salotti impeccabili, a mariti e padri impeccabili, gli impeccabili dottori, sorseggiando tè, e misurando le parole, per spiegare, con paradossale cortesia, che lo schifo del mare, e lo choc, e il terrore, era, in vero, serafica cura, per sterilità, anoressie, sfinimenti nervosi, menopause, sovraeccitazioni, inquietudini, insonnie. Ideale esperienza per sanare i turbamenti della giovinezza e preparare alla fatica dei muliebri doveri. Solenne battesimo inaugurale di giovinette divenute donne.
Si voltò e lentamente tornò sui suoi passi. Non c’era più vento, non c’era più notte, non c’erà più mare, per lei. Andava, e sapeva dove andare. Questo era tutto. Sensazione meravigliosa.
Forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano.
La guardò. Ma d’uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte. Sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta. Qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine – uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare? Vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere?
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Frasi d’amore di Baricco da dedicare a chi si ama
In qualsiasi romanzo pubblicato dallo scrittore, le frasi d’amore di Baricco sono essenziali e non possono mai mancare. Queste lasciano a bocca aperta, stupisco, fanno emozionare e sono ideali da dedicare a chi si ama. Troverete le citazioni d’amore di Seta di Baricco, frasi tratte da Novecento di Baricco e tante altre tra le più belle frasi di Alessandro Baricco.
Era una ragazza semplice, di quelle che sognano dietro ai libri e alle poesie, e se la vita è carogna non importa, una ragione buona per sorridere la trovi comunque. Era un tipo così. Ed era carina, questo bisogna dirlo. Non del genere vistoso, quelle che ti giri a guardarle. Più semplice. Ma aveva qualcosa che ti accalappiava, niente da dire, ce l’aveva. Come una specie di limpidezza, di trasparenza. Era quel tipo di donna che quando ce l’hai tra le braccia, sai che lei è lì, proprio tra le tue braccia e da nessuna altra parte. Non so se avete presente. Ma è una cosa rara. E bellissima, nel suo genere.
Lui tornerà ad essere un estraneo dopo che avrete fuso le vostre vite in una sola, vi siete confidati i segreti più nascosti e avrete abbattuto il muro di qualunque pudore. Sarete due estranei anche se conoscete il ritmo del vostro sonno, i vostri odori, le vostre abitudini. Due estranei che si conoscono meglio di chiunque altro e le cui vite non si incroceranno mai più se non per caso.
Salirai le scale, aprirai la mia porta e senza dirmi nulla mi prenderai tra le braccia e mi bacerai. Lo so che sembra sciocco. Ma mi piacerebbe succedesse davvero. È un bel modo di perdersi, perdersi uno nelle braccia dell’altro.
Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che prima o poi l’avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. È scoppiata tutto d’un colpo.
Quando lei aprì gli occhi lui sentì la propria voce dire piano: “Io ti amerò per sempre.
Scrivere a qualcuno è l’unico modo di aspettarlo senza farsi del male.
Nel buio, era un nulla amarla, e non amare lei.
Noi non ci vedremo più, quel che era per noi l’abbiamo fatto, e voi lo sapete. Credetemi: l’abbiamo fatto per sempre. Serbate la vostra vita al riparo da me. E non esitate un attimo, se sarà utile per la vostra felicità, a dimenticare questa donna che ora vi dice, senza rimpianto, addio.
Il sesso cancella fette di vita che uno nemmeno si immagina. Sarà anche stupido, ma la gente si stringe con quello strano furore un po’ panico e la vita ne esce stropicciata come un biglietto stretto in un pugno, nascosto con una mossa nervosa di paura. Un po’ per caso, un po’ per fortuna, spariscono nelle pieghe di quella vita appallottolata mozziconi di tempo dolorosi, o vigliacchi, o mai capiti. Così.
Due pezzi di puzzle. Fatti l’uno per l’altro. Da qualche parte del cielo un vecchio Signore, in quell’istante, li aveva finalmente ritrovati. Diavolo! Lo dicevo Io che non potevano essere scomparsi.
Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettera, aperta e senza indirizzo. Nella scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte e senza indirizzo. Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e scrive.
Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle –Ti aspettavo. Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni –i giorni, gli istanti– che quell’uomo, prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo –Tu sei matto. E per sempre lo amerà.
Venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile è stato riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo è già lo sapevano, questo è il meraviglioso. Questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai – lontani abbastanza – per trovarsi – lo erano quei due, lontani più di chiunque altro.
Tutto quello che c’era io l’ho visto guardando te. E sono stata ovunque, stando con te. È una cosa che non riuscirò mai a spiegare a nessuno, ma è così. Me la porterò dietro e sarà il mio segreto più bello.
Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. È scoppiata tutto d’un colpo. C’erano cocci ovunque, e tagliavano come lame.
E tuttavia, se ad esempio si potesse nello stesso istante, proprio nello stesso istante, contemporaneamente – se si potesse stringere un ramo ghiacciato nella mano, bere un sorso di acquavite, veder volare un tarlo, toccare del muschio, baciare le labbra di Jun, aprire una lettera aspettata da anni, guardarsi allo specchio, posare la testa sul cuscino, ricordarsi un nome dimenticato, leggere l’ultima frase di un libro, sentire un grido, toccare una ragnatela, accorgersi che qualcuno ti chiama, farsi scappare dalle mani un vaso di cristallo, tirarsi le coperte fin sopra la testa, perdonare qualcuno mai perdonato.
Una luce è giusto uno spicchio di storia. Se c’è una luce che è come lei, ci sarà anche un rumore, un angolo di strada, un uomo che cammina, molti uomini, o una donna sola, cose del genere. Non si fermi alla luce, pensi a tutto il resto, pensi a una storia. Riesce a capire che esiste, da qualche parte, e che se lei la trovasse, quello sarebbe il suo ritratto?
Perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai.
E sentì il velluto della sua voce quando gli disse –sei tornato– dolcemente –sei tornato.
Alzò lo sguardo su Hervè Joncour. I suoi occhi la fissavano, e lei capì che erano occhi bellissimi. Riabbassò lo sguardo sul foglio.
Stettero un bel po’ in silenzio, ognuno con i suoi pensieri, sembravano una coppia di quelle che si amano da tantissimo tempo e non hanno più bisogno di parlare.
Allora la donna si voltò verso di lui e vide lo stesso viso di tante altre volte, i denti storti, gli occhi chiari, le labbra da ragazzino, quei capelli sparati in testa. Ci mise un po’ a dire qualcosa. Stava pensando alla misteriosa permanenza dell’amore, nella corrente mai ferma della vita.
Fare l’amore così, la notte in cui lui tornava era un po’ più bello, un po’ più semplice, un po’ più complicato che in una notte qualunque. C’era di mezzo qualcosa come lo sforzo di ricordarsi qualcosa. C’era di mezzo un sottile timore di scoprire chissaché. C’era di mezzo il bisogno che fosse comunque bellissimo. C’era di mezzo una voglia un po’ impaziente, un po’ feroce, che non c’entrava niente con l’amore. C’era di mezzo un sacco di roba. Dopo, dopo era come ricominciare a scrivere da una pagina bianca.
Non è detto che se ami davvero qualcuno, ma tanto, la cosa migliore che puoi farci insieme sia vivere.
Muoiono nello stesso respiro, gli amanti.
Eravamo nello stesso amore, in quel momento – non abbiamo fatto altro, per anni. La sua bellezza, i suoi pianti, la mia forza, i suoi passi, il mio pregare – eravamo nello stesso amore. La sua musica, i miei libri, i miei ritardi, i suoi pomeriggi da solo – eravamo nello stesso amore. L’aria in faccia, il freddo nelle mani, le sue dimenticanze, le mie certezze – eravamo nello stesso amore.
Per mille volte cercò gli occhi di lei, e per mille volte lei trovò i suoi. Era una specie di triste danza, segreta e impotente.
Fammi un esempio. Tu, io, come siamo veramente, non come facciamo finta di essere.
Si incontreranno per tre volte, ma ogni volta sarà l’unica, e la prima, e l’ultima.
Alla donna venne soltanto in mente che capisci tutti i film d’amore, li capisci veramente. Ma anche quello non era facile da spiegare. E suonava un po’ idiota. Senza volerlo le tornarono in mente tante scene che aveva vissuto al fianco dell’uomo che amava, o lontano da lui, che poi era la stessa cosa, lo era da un sacco di tempo. Di solito cercava di non pensarci. Ma lì le tornarono in mente e in particolare si ricordò di una delle ultime volte in cui si erano lasciati e di quello che aveva capito in quell’istante. Quel che aveva capito, con certezza assoluta, era che vivere senza di lui, sarebbe stato, per sempre, la sua occupazione fondamentale, e che da quel momento, le cose avrebbero avuto ogni volta un’ombra, per lei, un’ombra in più, perfino nel buio, e forse soprattutto nel buio.
Se devo dimenticarti mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato.
Si salutarono stringendosi la mano, e la cosa sembrò ad entrambi di un’esattezza e di un’idiozia memorabili.
Ma non c’è misura nell’amore. Nell’amore e nel dolore, aggiunse.
Quando incominciò a vendere le proprietà io andai da mia madre e le chiesi: perché non lo fermi? Avevo sedici anni. Mia madre mi diede un ceffone. Poi mi disse una frase che lei, Florence, deve imparare a memoria. Mi disse: se ami qualcuno che ti ama, non smascherare mai i suoi sogni. Il più grande, e illogico, sei tu.
In amore mentiamo tutti.
Che stagione del cuore è questa, in cui ci si trova a correre in soccorso di anni dimenticati, fingendo di averli sentiti gridare aiuto?
Nulla può diventare così insignificante come qualsiasi cosa se ti ci svegli di fianco tutte le mattine della tua vita.
Aveva avuto l’accortezza, nondimeno, di farlo passare per un suo capriccio personale, regalando all’uomo che amava il piacere di perdonarglielo.
Stava pensando alla misteriosa permanenza dell’amore, nella corrente mai ferma della vita.
La strana intimità di quelle due rotaie. La certezza di non incontrarsi mai. L’ostinazione con cui continuano a corrersi di fianco.
Certe persone sono termometri, altre termostati. Tu sei un termostato. Non registri la temperatura in una stanza, la cambi.
E le spiegò che la bellezza di un rettilineo è inarrivabile, perché in essa è sciolta qualsiasi curva, e insidia, in nome di un ordine clemente, e giusto. È una cosa che possono fare solo le strade, le disse, e che invece non esiste nella vita. Perché non corre diritto il cuore degli uomini e non c’è ordine, forse, nel loro andare.
Per quanto la vita sia incomprensibile, probabilmente noi la attraversiamo con l’unico desiderio di ritornare all’inferno che ci ha generati, e di abitarvi al fianco di chi, una volta, da quell’inferno, ci ha salvato.
E allora lei rise, era la prima volta che la vedevo ridere, e tu lo sai bene, Andersson, com’è Jun quando ride, non è che uno può star lì e far finta di niente, se c’è Jun che gli ride lì davanti è chiaro che uno finisce per pensare se io non bacio questa donna impazzirò. E io pensai: se non bacio questa ragazza impazzirò.
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Alessandro Baricco, immagini da condividere
Le frasi di Alessandro Baricco sono incisive, immediate e romantiche. Proprio per tale motivo sono perfette le immagini con frasi di Baricco, da salvare sul proprio telefono o da stampare per rileggerle in continuazione. Nella galleria seguente vi proponiamo di Alessandro Baricco, immagini con frasi: l’emozione continua!
Anche il mare ci mente. Lo vediamo celeste quando in realtà è trasparente.
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